tra codice civile e clausola di ‘hardship’ (o di rinegoziazione)
Commento a cura dell’Avv. Cosimo Di Bitonto, RASS Studio Legale Rinaldi Associati
Nel diritto italiano, i potenziali effetti giuridici che lo “shock” esogeno della pandemia Covid-19 potrebbe produrre sulla gestione della fase esecutiva dei contratti commerciali ad esecuzione differita o prolungata rispetto alla stipulazione (c.d. “contratti di durata” “contratti a lungo termine”) riguarda non solo il profilo della sopravvenuta incapacità di una parte di adempiere le prestazioni contrattuali a proprio carico (impossibilità sopravvenuta di esecuzione della prestazione); ma anche il diverso profilo dell’alterazione dell’iniziale equilibrio economico tra le prestazioni dedotte originariamente in contratto (eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione, in sé pienamente eseguibile).
In eccezionale deroga al principio generale del diritto dei contratti “pacta sunt servanda” (o “sanctity-of-contract”: “contratto-legge-tra-le parti”), costituisce, infatti, altrettanto principio generale quello per cui, nei contratti a esecuzione continuata (es., somministrazione di energia elettrica, gas, acqua; appalto di opere o servizi) o periodica (fornitura di prodotti a scadenze temporali prefissate) ovvero a esecuzione differita (vendita di una partita di merce a consegne ripartite), se la prestazione di una delle parti è divenuta eccessivamente onerosa per il verificarsi di avvenimenti straordinari e imprevedibili, la parte che deve tale prestazione può domandare, in apposito giudizio, la risoluzione del contratto (art. 1467, co. 1, c.c.). Peraltro, la risoluzione giudiziale non può essere domandata se la sopravvenuta onerosità rientra nella c.d. “alea normale” del contratto (art. 1467, co. 2, c.c.).
La risoluzione del contratto per eccessiva onerosità sopravvenuta si qualifica, quindi, come rimedio a protezione del debitore contro il rischio di (eccessivo) aggravio della propria posizione contrattuale rispetto al momento di creazione del vincolo contrattuale, a carattere:
(a) in primo luogo, legale e non convenzionale (i.e., espressamente previsto dal legislatore e non frutto di specifici accordi tra le parti) e, come tale, ad attivazione giudiziale (i.e., mediante esercizio di un’azione avanti l’autorità giudiziaria, ordinaria o arbitrale);
(b) in secondo luogo, estintivo e non manutentivo del contratto (i.e., volto solamente alla rimozione, anziché alla sopravvivenza del contratto “squilibrato” per eccessiva onerosità sopravvenuta);
(c) in terzo luogo, eccezionale, in quanto è applicabile, per costante insegnamento della nostra giurisprudenza, solo al sopraggiungere di un evento (ovviamente esterno alle parti contrattuali), che sia
(i) sul piano oggettivo, straordinario: i.e., che accade raramente,
(ii) sul piano soggettivo, imprevedibile (o, se prevedibile, inevitabile): quale non è, secondo i nostri giudici, una semplice “congiuntura economica sfavorevole”,
(iii) non rientrante – come accennato – nella “normale alea contrattuale”, la quale, a propria volta, comprende anche le oscillazioni di valore delle prestazioni contrattuali che traggono origine – secondo la classica formula delle sentenze – dalle “regolari e normali fluttuazioni del mercato”.
Ora, pare allo stato evidente che l’emergenza sanitaria, economica e sociale innescata su scala globale dalla pandemia Covid-19 stia producendo, a livello macroeconomico, forti effetti negativi (anche) sull’intero sistema produttivo italiano, non derubricabili, a livello micro-economico degli specifici e determinati rapporti tra imprese, a semplici “regolari e normali fluttuazioni del mercato” (o “congiuntura economica sfavorevole”). Ciò, a tacere dell’auto-evidenza della straordinarietà e imprevedibilità (o comunque inevitabilità) della pandemia Covid-19.
Questo ovviamente non vuol dire che qualsiasi contratto a lungo termine attualmente in corso d’esecuzione sia oggi risolvibile giudizialmente per eccessiva onerosità sopravvenuta in collegamento alla pandemia da Covid-19.
Infatti, sempre per radicata posizione della giurisprudenza, la questione dell’applicabilità ad un determinato contratto della risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta deve essere risolta dal Giudice con specifico riferimento al caso concreto ed all’azione effettivamente proposta, dovendosi, a tal fine, considerare non solo la natura e la struttura del contratto sulla cui risoluzione si controverta, ma anche le modalità ed i tempi di adempimento delle reciproche prestazioni connesse al contratto stesso. Inoltre, la decisione circa la sopravvenienza e la sussistenza dell’eccessiva onerosità esige, peraltro, la soluzione della questione della proponibilità della domanda cui è legittimato quello dei contraenti la cui prestazione sia ancora dovuta (prestazione futura), quando questa sia divenuta eccessivamente onerosa (eccessiva onerosità diretta) o quando la prestazione dallo stesso contraente attesa dalla controparte si sia eccessivamente svilita (eccessiva onerosità indiretta), in modo da alterare l’equilibrio economico raggiunto dalle parti al momento della conclusione del contratto.
D’altra parte, l’onerosità sopravvenuta legittimante la risoluzione del contratto deve pure essere “eccessiva”: ossia collegata ad un sopravvenuto squilibrio di valori tra prestazione e contro-prestazione derivante da un eccezionale aumento di una o più voci di costo della prima da eseguire oppure da un’eccezionale diminuzione di valore reale della seconda da ricevere.
Anche qui, le prime rilevazioni statistiche per il mese di marzo 2020 sembrano indicare che, in Italia e nel Mondo, numerose categorie di materie prime e prodotti finiti (soprattutto della filiera produttiva dei settori energetico, alimentare, sanitario, turistico e trasporti) stiano subendo dei veri tracolli o impennate – a seconda del caso – dei prezzi, certamente di carattere eccezionale.
In tale prospettiva di “shock” asimmetrici di mercato da Covid-19 turbativi dell’equilibrio iniziale tra prestazione e contro-prestazione di uno specifico contratto commerciale, emerge, purtroppo, il limite intrinseco del rimedio legale della risoluzione giudiziale del contratto “squilibrato”: l’essere, cioè, un rimedio radicale, volto solo alla cancellazione del contratto, nella misura in cui quest’ultimo non contenga alcuna clausola di “hardship” (o di rinegoziazione) derogatrice della disciplina legale (non esaminate in tale sede, ma oggetto di un successivo intervento).
D’altronde, l’eliminazione del contratto, soprattutto per i contratti commerciali a lungo termine, potrebbe non essere necessaria od opportuna e comunque potrebbe non rispondere all’interesse della stessa parte che, subendo l’aggravamento della propria posizione contrattuale, sia legittimata (solo) a chiedere, in tribunale, la risoluzione del contratto “squilibrato” (e non anche la sua conservazione, ma con equa rettifica delle condizioni contrattuali “squilibrate”). Quest’ultima, infatti, in base al chiaro testo normativo e all’orientamento prevalente della giurisprudenza della Suprema Corte, può essere invocata soltanto dalla parte convenuta in giudizio con l’azione di risoluzione (art. 1467, co. 3, c.c.), in quanto il contraente a carico del quale si verifica l’eccessiva onerosità sopravvenuta della prestazione non può pretendere che l’altro contraente accetti l’adempimento a condizioni diverse da quelle pattuite.
Nondimeno, se – come appaiono denotare i primi segnali di “policy” – l’Era del Covid-19 si connota anche per un marcato tasso – “absit iniura verbis” – di paternalismo normativo da Stato Etico, non può escludersi che i nostri giudici, mossi da altrettanto paternalismo giudiziale, rispolverino un orientamento minoritario della giurisprudenza di merito, per il quale, pur in mancanza di clausole di “hardship” (o di rinegoziazione), i contratti a lungo termine, in applicazione dell’antico brocardo “rebus sic stantibus”, debbano continuare ad essere rispettati ed applicati dai contraenti solo sino a quando rimangono intatti le condizioni ed i presupposti di cui essi hanno tenuto conto al momento della stipula del negozio.
Al contrario, qualora si ravvisi una sopravvenienza nel sostrato fattuale e giuridico che costituisce il presupposto della convenzione negoziale (ad es., proprio gli “shock” di mercato da Covid-19), la parte che riceverebbe uno svantaggio dal protrarsi della esecuzione del contratto alle stesse condizioni pattuite inizialmente deve poter avere la possibilità di rinegoziarne il contenuto, in base al dovere generale di buona fede oggettiva (o correttezza) nella fase esecutiva del contratto (art. 1375 c.c.).
A tal proposito, si segnala, per concludere, come in recente passato si sia arrivati, addirittura, a stabilire, in un precedente della giurisprudenza di merito, che il giudice, in caso di inadempimento dell’obbligo legale di rinegoziazione per buona fede del contratto “squilibrato”, possa costituire con sentenza gli effetti del contratto modificativo che sarebbe risultato all’esito della rinegoziazione condotta secondo buona fede o, nell’ambito di un procedimento cautelare, condannare la parte inadempiente ad eseguire la prestazione cui la parte sarebbe tenuta in forza della rinegoziazione, e corroborare la condanna mediante la statuizione pure di una penale giudiziale.