dichiarata incostituzionale la norma sul risarcimento del danno all’immagine della P.A.
Avv. Rossana Mininno del Foro di Milano
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04/05/2020 14:47
SOMMARIO: 1. Cenni introduttivi. – 2. Il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione. – 3. Il fenomeno dell’assenteismo fraudolento dei dipendenti pubblici. – 4. La dichiarazione di illegittimità costituzionale: sentenza n. 61 del 9 gennaio – 10 aprile 2020 (in Gazzetta Ufficiale, Prima Serie Speciale – Corte costituzionale n. 16 del 15 aprile 2020). – 5. Considerazioni conclusive.
1. Cenni introduttivi.
Negli ultimi anni si è assistito al dilagare del fenomeno dell’assenteismo fraudolento dei dipendenti pubblici, autori di condotte di varia tipologia quali la timbratura del cartellino al posto di colleghi, l’allontanamento dal servizio senza autorizzazione, la simulazione di infermità e lo svolgimento di attività extraistituzionale in orario di lavoro. Nel tentativo di arginare il fenomeno il legislatore è intervenuto sancendo la responsabilità amministrativa dell’impiegato infedele, sotto un duplice profilo: quello del nocumento patrimoniale cagionato all’Amministrazione di appartenenza per l’indebita percezione della retribuzione in assenza della corrispettiva prestazione del servizio e quello del danno non patrimoniale arrecato all’immagine e al prestigio della medesima Amministrazione. Con riferimento a quest’ultimo tipo di danno si è di recene registrato l’intervento del Giudice delle leggi.
2. Il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione.
L’illecito contabile – avente, storicamente, il proprio referente normativo nell’articolo 82 del regio decreto 18 novembre 1923, n. 2440 – si compone, a livello strutturale, dell’elemento oggettivo (consistente in un comportamento umano, indifferentemente, commissivo od omissivo, cui sia riconducibile, in virtù di un nesso di causalità, un danno alla Pubblica Amministrazione) e dell’elemento soggettivo (declinato nelle forme del dolo e della colpa grave). Il bene giuridico leso è costituito dal patrimonio pubblico, del quale fa parte anche «l’insieme di beni ed utilità economicamente apprezzabili, che siano a disposizione e in uso alla collettività, e nei cui confronti lo Stato o l’ente territoriale assume l’obbligo di tutela» (Corte dei conti, Prima Sez. Giur., 8 ottobre 1979, n. 61).
Il danno c.d. erariale costituisce, tradizionalmente, il presupposto dell’azione di responsabilità amministrativa e, nel contempo, l’oggetto della pretesa risarcitoria, intendendosi per danno erariale, in termini generali, il depauperamento che il patrimonio dell’Erario (inteso come Stato-comunità) subisce in ragione della condotta illecita del pubblico agente. Nell’ambito dell’ampia categoria del danno erariale si inserisce il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, figura di ‘conio’ pretorio, espressione della tendenza giurisprudenziale alla depatrimonializzazione della responsabilità amministrativa, attuata tramite la valorizzazione della tutela di beni-valore immateriali, tendenza, infine, ‘consacrata’ a livello normativo dall’articolo 12 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 175, ai sensi del quale è erariale il danno «patrimoniale o non patrimoniale» (comma 2).
Il processo di depatrimonializzazione della responsabilità amministrativa ha condotto, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso, al graduale passaggio da un concetto ‘civilistico’ a un concetto ‘pubblicistico’ di danno erariale, nozione comprensiva, oltre che dell’elemento patrimoniale, anche di quegli interessi di carattere generale del corpo sociale o connessi con l’interesse pubblico all’equilibrio economico-finanziario, riferibili allo Stato-comunità.
Con due importanti decisioni risalenti agli anni ’70 del secolo scorso (n. 39 del 15 maggio 1973 e n. 108 del 20 dicembre 1975) la Prima Sezione Giurisdizionale della Corte dei conti ha fornito una nozione di danno erariale non più nel «senso ragionieristico di turbativa degli elementi del conto patrimoniale», ma nel senso di «danno pubblico» collettivo, da intendersi come «turbativa di quei beni che appartengono alla collettività organizzata dello Stato» (Corte dei conti n. 39/1973 cit.). Accanto alla tradizionale nozione ‘naturalistica’ di danno erariale si è affermata una nozione di nocumento inteso come perdita patrimonialmente valutabile di qualsiasi bene-utilità, anche di per sé aredittuale, che attiene alla sfera giuridica di un qualsiasi soggetto dell’ordinamento e che sia di per sé meritevole di protezione.
Nel corso di tale processo evolutivo è stato categorizzato il danno all’immagine della Pubblica Amministrazione, enucleato come autonoma categoria di danno derivante dalla perdita di prestigio, dal detrimento dell’immagine e della personalità pubblica e dal discredito complessivamente subìto dall’ente pubblico a cagione del contegno illecito tenuto dal lavoratore dipendente: ogni azione dannosa compiuta dal pubblico agente in violazione dell’articolo 97 della Costituzione «si traduce, infatti, in un’alterazione dell’identità della pubblica amministrazione e, più ancora, nell’apparire di una sua immagine negativa, in quanto struttura organizzata confusamente, gestita in maniera inefficiente, non responsabile e non responsabilizzata» (Corte dei conti, Sez. Riun., 23 aprile 2003, n. 10/QM).
La lesione dell’immagine della Pubblica Amministrazione si verifica con il clamor fori, ovvero con la divulgazione mediatica, con la risonanza data alla vicenda dai mass media della stampa e della televisione: il clamor fori costituisce «momento indefettibile, essenziale ed irrinunciabile di accesso alla teorica del danno all’immagine» (Corte dei conti, Sez. Giur. Basilicata, 21 marzo 2005, n. 57).
L’interesse che assume rilievo è quello al nome e all’onorabilità della Pubblica Amministrazione, oggetto di espresso riconoscimento da parte della legge 7 giugno 2000, n. 150, che prevede l’obbligo per la medesima Pubblica Amministrazione di rappresentare all’esterno un’immagine positiva (cfr. Corte dei conti, Sez. Giur. Piemonte, 19 maggio 2005, n. 145). Il primo tentativo di ‘positivizzazione’ del danno all’immagine della Pubblica Amministrazione è riconducibile all’articolo 17, comma 30-ter, del decreto-legge 1 luglio 2009, n. 78 (“Provvedimenti anticrisi, nonché proroga di termini”), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 agosto 2009, n. 102, modificato, in pari data, dal decreto-legge 3 agosto 2009, n. 103 (“Disposizioni correttive del decreto-legge anticrisi n. 78 del 2009”), convertito, con modificazioni, dalla legge 3 ottobre 2009, n. 141.
La citata disposizione, tuttavia, ha limitato la possibilità di azione nei confronti del dipendente pubblico al fine del risarcimento del danno all’immagine all’ipotesi di (previa) condanna penale passata in giudicato per determinati specifici reati (id est, quelli contro la Pubblica Amministrazione), tassatività il cui superamento è avvenuto con il decreto legislativo 26 agosto 2016, n. 174 (“Codice della giustizia contabile”).
3. Il fenomeno dell’assenteismo fraudolento dei dipendenti pubblici.
L’articolo 55-quater (“Licenziamento disciplinare”) del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 (“Norme generali sull’ordinamento del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche”), introdotto dal decreto legislativo 27 ottobre 2009, n. 150 (“Attuazione della legge 4 marzo 2009, n. 15, in materia di ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e di efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni”), individua le ipotesi in cui, ferma restando la disciplina in tema di licenziamento per giusta causa o per giustificato motivo e fatte salve le ulteriori ipotesi previste dal contratto collettivo, si applica al lavoratore dipendente «comunque» la sanzione disciplinare del licenziamento.
Con il decreto legislativo 20 giugno 2016, n. 116 (“Modifiche all’articolo 55-quater del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165, ai sensi dell’articolo 17, comma 1, lettera s, della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di licenziamento disciplinare”) è stato introdotto nel testo dell’articolo 55-quater il comma 3-quater, il quale prevede, con precipuo riferimento al caso di «falsa attestazione della presenza in servizio, mediante l’alterazione dei sistemi di rilevamento della presenza o con altre modalità fraudolente» e ove la falsa attestazione sia accertata in flagranza ovvero con strumenti di sorveglianza o di registrazione degli accessi o delle presenze, la denuncia al Pubblico Ministero e la segnalazione alla competente Procura Regionale della Corte dei conti. La norma stabilisce «un nuovo caso di responsabilità per danno all’immagine derogatorio rispetto alla più restrittiva disciplina generale» (Corte dei conti, Sez. Giur. Lombardia, 14 novembre 2019, n. 295).
L’azione intestata al Pubblico Ministero contabile, il quale, «quando ne ricorrono i presupposti, emette invito a dedurre per danno d’immagine», è connotata da elementi di specialità (quali la descrizione normativa della fattispecie e i criteri di determinazione del danno) e ha natura sanzionatoria, avendo il legislatore fissato un criterio di determinazione del quantum dovuto che prescinde dall’identificazione puntuale del pregiudizio arrecato all’Amministrazione danneggiata: pur essendo l’ammontare del danno risarcibile rimesso alla valutazione equitativa del Giudice contabile anche in relazione alla rilevanza del fatto per i mezzi di informazione, «comunque l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità dell’ultimo stipendio in godimento, oltre interessi e spese di giustizia».
Per quanto attiene al profilo della pregiudizialità penale, la magistratura contabile ha chiarito che «l’ipotesi di danno all’immagine prevista dall’art. 55 quater, comma 3 quater, del d.lgs. 165 del 2001 […] ha natura speciale rispetto alle ipotesi di danno all’immagine derivante da reato» in quanto «la condotta è descritta direttamente dal legislatore nell’ambito dell’art. 55 quater, comma 3 bis; viceversa, negli altri casi di danno all’immagine da reato la condotta rilevante è la medesima descritta dalle fattispecie di reato contro la pubblica amministrazione» (Corte dei conti, Sez. Riun., 12 giugno 2018, n. 6/2018/ORD/RCS).
4. La dichiarazione di illegittimità costituzionale: sentenza n. 61 del 9 gennaio – 10 aprile 2020 (in Gazzetta Ufficiale, Prima Serie Speciale – Corte costituzionale n. 16 del 15 aprile 2020).
La Corte dei conti, Sezione Giurisdizionale Regionale per l’Umbria, chiamata a pronunciarsi in ordine all’azione di responsabilità nei confronti di una dipendente comunale che per quattro giorni aveva attestato falsamente la propria presenza in servizio sino alle ore 18:00 anziché fino alle ore 17:00 (orario di effettiva interruzione del servizio), ha dichiarato rilevanti e non manifestamente infondate, in riferimento agli articoli 76 e 3 della Costituzione (quest’ultimo anche in combinazione con gli articoli 23 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’articolo 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e all’articolo 4 del Protocollo n. 7 addizionale di detta Convenzione), le questioni di legittimità costituzionale del comma 3-quater, ultimo periodo, dell’articolo 55-quater del decreto legislativo n. 165 del 2001 (sentenza non definitiva – ordinanza n. 76 del 9 ottobre 2018).
Secondo il Giudice contabile, la norma violerebbe in primis l’articolo 76 della Costituzione per eccesso di delega in quanto «il Legislatore delegato non avrebbe potuto introdurre norme di diritto sostanziale volte a fissare criteri di liquidazione del danno all’immagine da falsa attestazione della presenza in servizio (peraltro fissando […] una soglia sanzionatoria inderogabile nel minimo che potrebbe essere in concreto sproporzionata rispetto al caso concreto» e in secundis l’articolo 3 della Costituzione per manifesta irragionevolezza in quanto «obbliga il Giudice contabile a irrogare una condanna sanzionatoria senza tener conto dell’offensività in concreto della condotta posta in essere» e, nel contempo, «impedisce al Collegio di dare rilevanza ad altre circostanze specifiche peculiari e caratterizzanti il caso concreto, come impone al Giudicante un verdetto condannatorio pur in presenza di condotte marginali e tenui che abbiano prodotto un pregiudizio minimo e poco significativo, violando sia il principio di proporzionalità che quello della gradualità sanzionatoria».
Al fine della risoluzione della questione sollevata il Giudice delle leggi ha valorizzato il dato formale costituito dal ‘perimetro’ della legge di delegazione. Il decreto legislativo n. 116 del 2016, il quale ha introdotto il comma 3-quater nel testo dell’articolo 55-quater del decreto legislativo n. 165 del 2001, è stato adottato in attuazione della legge 7 agosto 2015, n. 124 (“Deleghe al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche”), con la quale il legislatore ha delegato il Governo a riordinare la disciplina del lavoro alle dipendenze delle Amministrazioni Pubbliche in virtù del seguente criterio direttivo: «introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare» (articolo 17, comma 1, lettera s).
Come rilevato dal Giudice delle leggi, a differenza di quanto avvenuto con la precedente legge 4 marzo 2009, n. 15 (“Delega al Governo finalizzata all’ottimizzazione della produttività del lavoro pubblico e alla efficienza e trasparenza delle pubbliche amministrazioni nonché disposizioni integrative delle funzioni attribuite al Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro e alla Corte dei conti”), «laddove il legislatore aveva espressamente delegato il Governo a prevedere, a carico del dipendente responsabile, l’obbligo del risarcimento sia del danno patrimoniale che del danno all’immagine subìti dall’amministrazione, tanto non si rinviene nella legge di delegazione n. 124 del 2015». In particolare, l’articolo 17, comma 1, lettera s), della legge n. 124 del 2015 «prevede unicamente l’introduzione di norme in materia di responsabilità disciplinare dei pubblici dipendenti, finalizzate ad accelerare e rendere concreto e certo nei tempi di espletamento e di conclusione l’esercizio dell’azione disciplinare»: la disposizione di delega, «come risulta dagli atti preparatori, non era presente nel testo iniziale del disegno di legge (A.S. n. 1577), ma è stata introdotta con emendamento (n. 13.500) del relatore nel corso dell’esame in Senato» e in sede di discussione parlamentare «la questione della responsabilità amministrativa non risulta essere mai stata oggetto di trattazione» con la conseguenza che «la materia delegata è unicamente quella attinente al procedimento disciplinare, senza che possa ritenersi in essa contenuta l’introduzione di nuove fattispecie sostanziali in materia di responsabilità amministrativa».
A supporto di detta conclusione il Giudice delle leggi ha osservato che la legge di delegazione n. 124 del 2015 è, sostanzialmente, una «delega per il riordino» in quanto «diretta a dettare norme di semplificazione»: «è particolarmente significativa l’espressa prescrizione (art. 16, comma 2, della legge n. 124 del 2015) che, «[n]ell’esercizio della delega di cui al comma 1, il Governo si attiene ai seguenti princìpi e criteri direttivi generali: a) elaborazione di un testo unico delle disposizioni in ciascuna materia, con le modifiche strettamente necessarie per il coordinamento delle disposizioni stesse, salvo quanto previsto nelle lettere successive; b) coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo; […]», in tal modo lasciando al legislatore delegato ridottissimi margini innovativi, tanto che, nella fissazione degli ulteriori princìpi e criteri direttivi (come previsto dall’art. 16, comma 3), il successivo art. 17 definisce i decreti delegati come espressamente finalizzati al «riordino della disciplina in materia di lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche»».
Come reiteratamente affermato dalla Corte costituzionale (cfr. ex multis sentenze n. 230 del 2010, n. 80 del 2012 e n. 94 del 2014), la c.d. delega per il riordino «concede al legislatore delegato un limitato margine di discrezionalità per l’introduzione di soluzioni innovative, le quali devono comunque attenersi strettamente ai princìpi e ai criteri direttivi enunciati dal legislatore delegante», delega nella quale non può, secondo l’argomentare del Giudice delle leggi, «ritenersi compresa la materia della responsabilità amministrativa e, in particolare, la specifica fattispecie del danno all’immagine arrecato dalle indebite assenze dal servizio dei dipendenti pubblici». Il comma 3-quater dell’articolo 55-quater del decreto legislativo n. 165 del 2001, con il prevedere «una nuova fattispecie di natura sostanziale intrinsecamente collegata con l’avvio, la prosecuzione e la conclusione dell’azione di responsabilità da parte del procuratore della Corte dei conti», risulta – in applicazione del criterio di stretta inerenza alla delega – in contrasto con l’articolo 76 della Costituzione.
Il Giudice delle leggi, pur avendo la Corte rimettente limitato le censure di illegittimità costituzionale all’ultimo periodo del comma 3-quater vertente sulle modalità di stima e quantificazione del danno all’immagine, ha esteso la dichiarazione di incostituzionalità anche al secondo e al terzo periodo di detto comma «perché essi sono funzionalmente inscindibili con l’ultimo, così da costituire, nel loro complesso, un’autonoma fattispecie di responsabilità amministrativa non consentita dalla legge di delega».
5. Considerazioni conclusive.
In virtù del combinato disposto dell’articolo 136 della Costituzione e dell’articolo 30 della legge 11 marzo 1953, n. 87, la pronuncia dichiarativa dell’illegittimità costituzionale di una norma di legge determina la cessazione della sua efficacia con effetti erga omnes ed ex tunc: successivamente alla pubblicazione della decisione del Giudice delle leggi è inibita l’applicazione della norma (dichiarata) incostituzionale a tutti i rapporti giuridici non ancora esauriti in relazione ai quali risulti rilevante, indipendentemente dalla circostanza che la fattispecie sia sorta in epoca anteriore alla pubblicazione.
A seguito della dichiarazione di incostituzionalità del comma 3-quater (secondo, terzo e quarto periodo) dell’articolo 55-quater del decreto legislativo n. 165 del 2001 l’eventuale condanna del lavoratore dipendente al risarcimento del danno arrecato all’immagine della Pubblica Amministrazione non sarà più vincolata al rispetto del minimo edittale in precedenza fissato ex lege.