IL TRIBUNALE DI MILANO SI PRONUNCIA SULLA NATURA DELLA DENUNTIATIO ‘RITRATTATA’ ALL’ESITO DELL’ESERCIZIO DEL DIRITTO DI PRELAZIONE
Il provvedimento del Tribunale milanese
a cura dell’avv. Daniele Iorio, Studio CDRA’
Con ordinanza in data 28 gennaio 2020 il Tribunale di Milano si è espresso negativamente all’esito di un procedimento cautelare ai sensi dell’art. 670 cod. proc. civ. per il sequestro giudiziario di una quota di S.r.l. per non avere il socio resistente ceduto la propria quota di partecipazione al socio ricorrente, pur avendo quest’ultimo accettato l’offerta in denuntiatio.
In particolare, per quanto consti dal provvedimento del Tribunale, risulta che:
(i) il socio intenzionato alla cessione della propria quota di partecipazione ari al 50% del capitale sociale, al prezzo di 400.000,00 euro, comunicava ai soci e agli amministratori della società tale intenzione di vendere;
(ii) uno dei soci pretermessi (il ricorrente) esercitava il diritto di prelazione “in proporzione alla partecipazione posseduta pari al 5% del capitale sociale” comunicando la volontà di acquistare una quota pari al 5% del capitale sociale al prezzo di 40.000,00 euro;
(iii) con successiva comunicazione, il medesimo socio offerente, comunicava il venir meno dell’interesse in capo al potenziale acquirente all’acquisto delle quote precisando altresì che comunque la precedente comunicazione non poteva costituire un valido esercizio del diritto di prelazione, avendo avuto ad oggetto solo una piccola quota del pacchetto offerto e non invece l’intera partecipazione oggetto di denuntiatio.
Il Tribunale rigettava la richiesta cautelare in buona sostanza, ricalcando il solco dell’orientamento giurisprudenziale ormai consolidato, per cui “salvo diversa previsione statutaria – la denuntiatio non ha natura giuridica di vera e propria “offerta contrattuale” bensì costituisce un semplice “invito a contrarre”, volto a mettere gli altri soci-oblati a conoscenza dell’intenzione di uno di essi di disporre della propria partecipazione sociale, nonché di comunicare tutte le condizioni alle quali il promittente intende concludere il contratto di cessione con terzi, sicchè con la semplice denuntiatio non sorge alcun obbligo immediato a carico del promittente, il quale è libero anche di non stipulare il contratto cui si riferisce la prelazione, obbligandosi solo a preferire, ove intenda concludere la cessione, l’oblato” (si veda ad esempio lo stesso Tribunale di Milano, sentenza n. 5705 del 24 aprile 2013).
Inoltre, osservava il Tribunale, la non accoglibilità della cautela attivata dal ricorrente in quanto lo stesso aveva comunicato “una dichiarazione “non conforme” alla denuntiatio, avendo egli dichiarato di esercitare il diritto di prelazione limitatamente ad una quota pari al 5% dell’intero capitale sociale, per il prezzo di 40.000 euro, intendendo acquistare una quota pari ad 1/10 della partecipazione detenuta dal socio offerente con unilaterale riduzione del prezzo“.
Tale ultima parte del provvedimento, avente tra l’altro carattere assorbente nella fattispecie de qua, non costituirà oggetto della presente analisi.
Breve analisi della questione giuridica
Il principio espresso dal Tribunale di Milano sulla natura della denuntiatio, come detto, non spicca certamente per innovatività, offre però l’occasione per approntare qualche riflessione sull’istituto della prelazione e sugli strumenti di reazione astrattamente attuabili in costanza di pratiche, peraltro non rarissime, di utilizzo abusivo della denuntiatio.
Partiamo col dire che il concetto di prelazione si identifica con il diritto di un soggetto ad essere preferito coeteris paribus a terzi nell’acquisto di un determinato bene, nell’ipotesi in cui un proprietario decida di trasferirlo. Sebbene possa definirsi pacifica la suesposta definizione, non altrettanto può dirsi della qualificazione giuridica della clausola, che da sempre, in ambito societario, separa dottrina e giurisprudenza. Clausola che tra l’altro può essere oggetto delle più svariate conformazioni contrattuali tanto da rendere opportune valutazioni caso per caso.
La clausola di prelazione non viene ad incidere (a differenza ad esempio della clausola di gradimento), sulla complessiva autonomia negoziale del socio cedente, ma più limitatamente sulla sola individuazione del soggetto nei cui confronti il trasferimento è riproduttivo di effetti, con sostituzione del soggetto individuato dal cedente con quello del socio che intenda prenderne il posto a parità di condizioni. In altre parole il discrimen andrebbe individuato nell’indifferenza della sostituzione rispetto alle altre componenti negoziali della cessione.
Volendo muoversi per concetti generali, nella clausola di prelazione il prezzo di acquisto della partecipazione sociale rappresenta di solito l’aspetto principale ai fini della valutazione dell’esercizio del diritto.
Tale prezzo, unitamente ad altri elementi essenziali del negozio che si vuole concludere, deve tendenzialmente essere contenuto nella denuntiatio “la denuntiatio “dovrà contenere l’indicazione dei precisi termini del contratto che s’intende concludere con il terzo” (in tal senso Cassazione Civile, 12 marzo 1981, n. 1407). Come ripetutamente statuito in giurisprudenza, infatti, “(l)a comunicazione dell’offerta (c.d. denuntiatio) … non può limitarsi alla mera enunciazione dell’intenzione di addivenire a quell’affare, ma deve indicare tutti gli elementi dell’accordo” (cfr. Tribunale di Cassino, 9 settembre 1997).
Il che serve a garantire la ‘parità di condizioni’, al ricorrere delle quali deve essere attuata la ‘preferenza’. In linea con questo principio, la clausola di prelazione che prevede la preferenza dei soci anche a condizioni peggiorative rispetto a quelle offerte da terzi è stata sanzionata con la nullità (sul punto, cfr. Tribunale di Trieste, 19 dicembre 1993 e Tribunale di Roma 9 dicembre 1987).
Ponendoci il problema inverso, invece, si tratterebbe di comprendere come si potrebbe evitare che il terzo ed il socio interessato (o apparentemente interessato) alla cessione simulino condizioni di vendita molto più onerose di quelle effettive onde aggirare l’ostacolo del vincolo preferenziale ed indurre il pretermesso a non avvalersi del proprio diritto ad essere preferito. In sostanza il prezzo indicato nella denuntiatio potrebbe celare un accordo fraudolento tra alienante e terzo finalizzato a scoraggiare l’acquisto dei soci mediante l’esercizio della prelazione.
In tale contesto si colloca la possibilità di stabilire una clausola di prelazione impropria dove l’individuazione del prezzo è affidata a parametri diversi da quelli della mera trattativa privata tra alienante e terzo.
Ciò per evitare speculazioni tendenti a sopravvalutare il valore della partecipazione che metterebbero fuori gioco gli altri soci aventi diritto alla prelazione. Tale tipologia di pattuizione è oggi ritenuta legittima, anche se giurisprudenza ormai risalente riteneva invalida una siffatta pattuizione.
Abbiamo dunque sinteticamente visto delle possibili problematiche che potrebbero presentarsi.
Problematiche la cui risoluzione dipende anche (e non solo) dalla natura che si vuole attribuire alla denuntiatio. Da tale risposta dipende essenzialmente anche l’individuazione degli strumenti di reazione utilizzabili nel caso in cui i soggetti coinvolti non adempissero correttamente allo schema negoziale delineato con la denuntiatio.
Brevi riflessioni
Il Tribunale ha statuito che “la denuntiatio cui sono obbligati i soci di detta società equivale ad una mera “comunicazione mediante lettera raccomandata” (invito ad offrire), ma tale vincolo formale non può tradursi per ciò solo in un obbligo a contrarre, sicchè il vantaggio riconosciuto dallo Statuto ai soci d(ella società) va circoscritto al mero interesse in capo a questi ultimi ad essere debitamente informati e preferiti – alle medesime condizioni – in caso di alienazione ad altri eventuali contraenti (terzi rispetto alla compagine sociale), senza che per ciò solo questo adempimento si traduca in un vincolo giuridico in capo al socio promittente avente contenuto analogo ad una proposta irrevocabile o alla concessione di un diritto di opzione”.
Il principio se, da un lato, è perfettamente idoneo alla risoluzione della fattispecie in esame, dall’altro lato, consente di svolgere qualche riflessione per approcciare il problema da altre prospettive.
Non è di certo questa la sedes materiae per approfondire la questione della natura della denuntiatio, ma qualche telegrafica riflessione, come dicevamo, è d’uopo.
Se è vero come è vero che la denuntiatio è una “mera comunicazione” e non un costituisce un “obbligo a contrarre“, non pare ci siano argomentazioni per escludere una ‘responsabilità precontrattuale’ del socio che ‘ritratti’ una volontà già rappresentata nell’inter funzionale all’esercizio del diritto di prelazione. E ciò a maggior ragione quando venga dimostrata la natura abusiva dell’operazione.
E’ il caso, a nostro avviso, sia del prelazionario che prima manifesti una volontà positiva rispetto alla cessione paventata e poi non dia seguito a tale manifestazione di volontà, sia dell’offerente che, recepita la volontà di esercizio della prelazione, non dia seguito alla cessione. Caso quest’ultimo, molto simile a quello di specie, con la non marginale differenza, però, che, nella fattispecie decisa dal Tribunale meneghino vi era anche l’ulteriore e assorbente questione dell’esercizio della dichiarazione in maniera “non conforme” alla denuntiatio.
Non pare peregrina, dicevamo, l’ipotesi della responsabilità precontrattuale, per la cui configurazione basterà “che le parti abbiano preso in considerazione … gli elementi essenziali dello stipulando contratto, giacchè solo in tal caso è configurabile il fondato affidamento delle parti, o di taluna di esse, nella conclusione del negozio” (così Cassazione Civile, 22 ottobre 1982, n. 5492 secondo cui “affinchè possa darsi responsabilità precontrattuale è necessario che, sia pure a livello di semplici trattative, le parti abbiano preso in considerazione gli elementi essenziali del contratto che propongono o sperano di stipulare; solo in tal caso le parti possono o taluna di esse può fare fondato affidamento sulla futura conclusione del negozio“; nello stesso senso anche Cassazione Civile, 25 febbraio 1992, n. 2335).
Ed ancora, se è vero come è vero che “La prelazione statutaria rimane pertanto un patto del tutto estraneo alla conclusione del contratto di cessione di quote, dal momento che per la conclusione dello stesso, deve far seguito una ulteriore accettazione del promittente-denunziante, solo in presenza
d
ella quale si può dire concluso il negozio“, occorrerà interrogarsi se tale principio sia applicabile anche in costanza di una denuntiatio particolarmente strutturata ovvero, a maggior ragione, di una clausola statutaria che prevede la vincolatività della denuntiatio.