due interessanti principi a garanzia dei privati nel procedimento amministrativo
Commento a cura di Matteo Piacentini, EPTALEX Garzia Gasperi & Partners – Pasquale Pantalone, ricercatore di diritto amministrativo
Tra le differenti ed eterogenee novità apportate dal Decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (c.d. “Decreto Semplificazioni”)
, ve ne sono alcune degne di rilievo che riguardano il procedimento amministrativo. Si intende, in particolare, fare riferimento alle previsioni concernenti il silenzio-assenso e il preavviso di diniego.
Con la prima novella in esame (art. 12, comma 1, lett. a), n. 2) del D.L. cit.), è stato introdotto il comma 8-bis all’art. 2, l. 241/1990, secondo cui: “Le determinazioni relative ai provvedimenti, alle autorizzazioni, ai pareri, ai nulla osta e agli atti di assenso comunque denominati, adottate dopo la scadenza dei termini di cui agli articoli 14-bis, comma 2, lettera c), 17-bis, commi 1 e 3, 20, comma 1, ovvero successivamente all’ultima riunione di cui all’articolo 14-ter, comma 7, nonché i provvedimenti di divieto di prosecuzione dell’attività e di rimozione degli eventuali effetti, di cui all’articolo 19, comma 3 e 6-bis, adottati dopo la scadenza dei termini ivi previsti, sono inefficaci, fermo restando quanto previsto dall’articolo 21-nonies, ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”.
Secondo la relazione illustrativa al decreto, la norma mirerebbe a garantire la piena efficacia alla regola del silenzio-assenso attraverso la “sanzione” dell’inefficacia di taluni atti o provvedimenti amministrativi adottati fuori termine.
La disposizione è da salutare con favore, specie con riferimento alla criticabile prassi dei dinieghi tardivi, che minano alla certezza del diritto e al principio di legittimo affidamento dei privati. In effetti, nella prassi accade spesso che l’amministrazione blocchi tardivamente un’attività economica legittimamente assentita “per silentium“, onerando il destinatario dell’atto inibitorio alla sua impugnazione tempestiva dinanzi al giudice amministrativo, con tutto ciò che ne consegue in termini di costi collegati alla tutela giurisdizionale e ai mancati introiti dell’attività intrapresa (almeno siano alla non scontata sospensione cautelare degli effetti del provvedimento impugnato).
Fermo restando il potere di annullamento d’ufficio, “ove ne ricorrano i presupposti e le condizioni”, invece, la nuova norma fulmina con l’inefficacia l’atto tardivo, a prescindere dagli effetti – favorevoli o sfavorevoli – che esso produce nei confronti del privato.
Se appare corretto, per le ragioni sopra indicate, prevedere l’inefficacia – meglio sarebbe la nullità per fugare ogni dubbio circa l'(in)esistenza dell’onere di tempestiva impugnazione del provvedimento – di un diniego (o comunque di un atto con effetti inibitori) tardivo, non altrettanto sembra potersi dire per il provvedimento di conferma dell’avvenuto effetto ampliativo, che reca pur sempre un’utilità – nel senso di una maggiore certezza giuridica – per il privato e per coloro che intrattengono rapporti giuridici con quest’ultimo (si pensi, ad esempio, agli istituti di credito).
Per questo, in sede di conversione del decreto, pare auspicabile prevedere, in linea con quanto peraltro già stabilito in tema di semplificazione edilizia (cfr. art. 10, comma 1, lett. i, del D.L. cit.), che, su richiesta dell’interessato, l’amministrazione competente debba sempre rilasciare un atto meramente confermativo del provvedimento formatosi per silenzio assenso.
Con la seconda novella in analisi (art. 12, comma 1, lett. e) del D.L. cit.), per quanto qui più interessa, è stato stabilito che, in caso di annullamento in giudizio del provvedimento di diniego, l’amministrazione, nel riesercizio del potere, “non può addurre per la prima volta motivi ostativi già emergenti dall’istruttoria del provvedimento annullato“.
In coerenza con il principio giurisprudenziale del c.d. “one shot temperato”, si prevede un vincolo per l’amministrazione, con effetto preclusivo, di “scoprire tutte le carte” in un’unica soluzione in sede procedimentale. Si vuole cioè evitare la defatigante alternanza tra procedimento e processo nei casi in cui l’amministrazione, dopo la sentenza di annullamento conseguente al mancato accoglimento delle osservazioni del privato ex art. 10-bis l. 241/1990, continui sistematicamente a negare il bene della vita con motivazioni ostative ogni volta differenti.
A tacere dei possibili profili di minor tutela per il terzo su cui occorre forse un supplemento di riflessione anche in sede di conversione del decreto (ad esempio: egli potrà far valere le ragioni ostative all’accoglimento dell’istanza non rilevate dall’amministrazione nel corso della prima istruttoria?), la disposizione sembra comunque andare nella (giusta) direzione di una maggiore garanzia per il privato istante, onerando l’amministrazione a effettuare un’istruttoria tempestiva e completa, almeno nei procedimenti ad istanza di parte.
Come emerso nel corso di un’audizione informale del Prof. Francesco Goisis in relazione all’esame del disegno di legge di conversione del D.L. 76/2020, non sembra peregrino estendere la portata applicativa del principio generale in esame anche ai procedimenti ad iniziativa d’ufficio destinati all’emanazione di provvedimenti finali limitativi della sfera giuridica dei privati, ove il pregiudizio per questi ultimi è talora più penalizzante del mancato rilascio di un provvedimento ampliativo.
Si potrebbe perciò prevedere l’obbligo per l’amministrazione di esplicitare già nell’atto di chiusura dell’istruttoria tutte le ragioni a fondamento del provvedimento restrittivo finale, senza che, nell’ipotesi di riesercizio del potere a seguito dell’annullamento giurisdizionale, l’amministrazione medesima possa addurre differenti ragioni a sostegno della propria posizione.